Quindi sta emergendo questa nuova disciplina, la Cliodinamica. Attira parecchio la mia curiosita', essendo una sorta di ponte tra la scienza ufficiale fatta di modelli, teorie, numeri, metodo e predizioni e la sfera dell'universo che piu' sembra sfuggire a ogni previsione scientifica: l'umanita' stessa. Puo' il metodo scientifico inventato dagli esseri umani essere usato per studiare le dinamiche sociali di tali esseri?
Sicuramente tutti saranno d'accordo, scienziati e no, che applicare il metodo scientifico per capire e quindi predirre il comportamento del singolo individuo, e' cosa talmente lontana dal fattibile che diventa di fatto impossibile. Il problema e' troppo complicato che non vale la pena perderci tempo. Ma quando gruppi di persone sono studiati insieme, paradossalmente, la speranza di quegli scienziati e' che le cose si semplifichino. Fino a poter trovare pattern ripetuti, correlazioni tra occorrenze che, in posti diversi e tempi diversi, diano piu' o meno effetti simili.
Ma e' una speranza fondata? O puo' esserci qualche ostacolo di principio, che magari io non vedo troppo bene, ma qualcun'altro puo'? Ne ho parlato con il (quasi-)dottor P., esperto di filosofia, soprattutto filosofia politica. Studiare quotidianamente la filosofia politica, credo, deve modificare seriamente la percezione del mondo. La fisica quotidiana lo fa con me, d'altro canto. E volendo sapere com'e' il mondo da quell'altra parte del fiume, P. mi e' sempre d'aiuto.
La giro a conversazione, tra me e lui, come potrebbero fare due personaggi di un romanzo ottocentesco, di quelli noiosissimi. Spero possa interessare chi voglia vedere i diversi approcci che hanno due ininfluenti ma entusiasti esponenti di queste due discipline tanto lontane, fisica e filosofia (politica).
F. Quindi cosa ne pensi di questa nuova direzione della scienza dura, in cui si vuole usare massicciamente il metodo scientifico e statistico (che gia' si usa in altri campi) per andare a scovare pattern e correlazioni niente di meno che nella Storia Umana? Ha senso dal tuo punto di vista ?
P. La questione - cioe' possono le scienze sociali (come la storia) diventare come le scienze pure? - e' molto complessa. Su di essa si sono scritte migliaia di pagine e combattute guerre atroci (non ancora sopite). E' una questione che divide quasi in due bande gli scienziati sociali: chi dice che si, chi dice che no, e chi dice che forse un po'.
Io sono nel bando del no.
O meglio, evidentemente che l'uso di tecniche sperimentali e metodi quantitativi sia a volte utili per cercare di prevedere comportamenti futuri di breve periodo e' scontato. Ma il punto e' un altro. Cosa mi serve sapere, per esempio, quale sara' il comportamento elettorale dei giovani nelle prossime elezioni (il comportamento elettorale e' uno dei campi dove piu' e' diffuso il metodo quantitativo) se non so cosa significa "democrazia"?
Nel secolo XX, l'avvenimento storico-politico piu' rilevante e' stato sicuramente il nazismo. Avrebbe mai potuto una scienza sociale "scientifica" prevedere questo fenomeno? No. Il compito, come dice Hannah Arendt, non e' tanto prevedere il futuro ma cercare di comprendere il passato. Non prevedere le "incrostazioni" dei comportamenti umani che si ripetono regolarmente nei secoli, ma capire le eccezioni rilevanti. Le prime sono le cose meno interessanti (anche se importanti), e le seconde quelle che determinano il cammino della storia. Vico non la pensava in modo molto differente.
Insomma se non si cerca di capire la sostanza dei fenomeni umani, di dargli un significato, allora cercare di prevedere i comportamenti umani, oltre che velleitario (i risultati di questi sforzi sono sempre stati piuttosto scarsi), e' fuorviante.
Te lo dico perche' non e' che quelli che usano metodi quantitativi sono una sparuta minoranza. Sono la stragrande maggioranza e si stanno espandendo. Nel congresso dell'associazione europea di scienze politiche, su 40 di panel dedicati a vari temi, solo 4 erano di filosofia politica, tutti gli altri erano piu o meno riconducibili a metodi quantitativi.
F. La cosa mi interessa parecchio perche' io sono essenzialmente sull'altra sponda rispetto a te, pur avendo da sempre non so se il cuore o solo l'educazione dall'altra. Io sono sulla sponda in cui il numero (la quantificazione) e' il dio. Gli strumenti di misura sono gesu', e noi tutti gli apostoli che dobbiamo capire dai numeri attraverso uno schermo la realta' divina. Non si puo' dire che non funzioni per nulla, ci ha mandato sulla luna e cura i tumori.
Il metodo e' la cosa che mi piace di piu' di tutta questa storia: ipotesi, verifica, predizione, verifica, nuova ipotesi, verifica etc etc. Il metodo scientifico da Galileo in poi ne ha fatta di strada, ed e' questo che mi rende entusiasta del lato in cui sto. Pero' ora la gente si inizia a dire: questo metodo stesso (quello della scienza dura: il lavoro sperimentale, poi modelli e analisi), non lo possiamo applicare altrove rispetto a sistemi costruiti ad arte?
Galileo, ancora, ci insegno' che per capirci qualcosa della natura bisognava "togliere": bisogna cioe' eliminare accidenti esterni, cause i cui effetti sono troppo complicati, perturbazioni varie, e uno rimane davanti alla natura fatta di triangoli e cerchi, perfettamente spiegabile in termini geometrici o matematici. E la cosa funziona, aiuta a capire (e ad usare) la base delle cose, dalle puleggie agli atomi. Ma ora si dice, e forse in maniera naturale: iniziamo ad "aggiungere", e si inizia a studiare il caos determinista in matematica, l'interazione tra popolazioni, l'ecologia, le robe complesse fatte da tanti piccoli elementi che interagiscono, le reti, il cervello. E le descrizioni analitiche esplodono in complessita', ma si riesce ancora a fare molto.
Fino a dire: vediamo cosa possiamo dire sulla Storia, fenomeno di cui iniziamo ad avere sufficienti dati "sperimentali". Leggendo quell'articolo di Nature all'inizio storcevo il naso. Non si sa come si comporta un semplicissimo sistema di 3 equazioni non lineari, e tu vuoi farlo con la Storia? mmm, non mi convinceva proprio.
Pero', e c'e' un piccolo pero', forse alla fine ho capito cosa intendono fare: vogliono provare ad applicare il metodo, e non a trovare soluzioni "analitiche" a problemi impossibili. E quindi: andare a cercare nel passato dei pattern (cosi chiamano le tue "incrostazioni") che si ripetono e vedere se hanno generato, nel loro futuro a noi conosciuto, delle conseguenze simili. Chissa' che non si trovi che il nazismo e' stato generato da pattern nella societa' (rancore per i trattati di pace appena fatti, crescita demografica e/o economica) simili a quelli che si possano trovare altrove in altro periodo (magari oggi?). La cosa quasi mi sembra ragionevole. Mi sembra quello che sempre hanno fatto gli storiografi, ma questa volta cercando di quantificare.
Pur essendo un "entusiasta" del metodo, lungi da me pensare che quella sia l'unica maniera di rapportarsi al mondo. Ne esistono altre, e' bene esserne consapevoli e rispettarli (ognuno nella sua sfera di attuabilita'). Metodi non analitici, evocativi, a volte strettamente non basati sulla logica, retorici: dalla filosofia all'arte o alla poesia, fino anche al misticismo dei monaci buddhisti. Una volta ho sentito dire, da un bravissimo scientifico, che la filosofia dovrebbe scomparire, perche' e' un campo in cui ognuno puo' dire quello che gli pare senza verifiche di alcun tipo. Il che e' pur vero, ma c'e' da capire che, pur essendo immersi nel metodo scientifico, non e' quella la sola via alla lettura della realta'. Certo se mi viene un'infezione preferisco un medico a uno sciamano, ma cio' non toglie che lo sciamano mi affascina e credo che possa insegnarci parecchie cose.
P. Veniamo alla questione della storia come scienza analitica.
Realmente, non e' che mi posso ora mettere a scrivere un trattato, perche', come immaginerai, questo tema - la relazione tra le scienze naturali e quelle umanistiche, o il tentativo di trasportare i metodo scientifico delle prime nelle seconde - e' enorme e su di esso si e' scritto moltissimo. questo perche' tocca un punto centrale: "quanto possiamo sapere, prevedere, e controllare dei processi in societa'?", cioe' "fino a che punto e' conoscibile il senso dell'azione umana e quindi dell'uomo?". E' anche un punto in cui si vede nella maniera piu' drastica, la differenza tra la filosofia antica e quella moderna. Su questo punto, infatti, si e' registrata una delle rotture piu' drastiche effettuate dalla modernita'. In breve, la rivoluzione scientifica che si e' verificata con Galileo, poi Copernico, ecc. ha avuto delle influenze molto rilevanti anche sul lato filosofico. Naturalmente, le influenze sono state reciproche, pero' diciamo che i successi ottenuti con il metodo scientifico sono stati accolti dall' "altra parte" con grande ammirazione, e allo stesso tempo, con frustrazione per i presunti "insuccessi" a cui invece era abituata la filosofia.
Si e' iniziato a pensare (Machiavelli e Hobbes) che la filosofia politica doveva interessarsi alla realta' e non a quello che vorremmo che fosse la realta'; che il conoscimento dovesse procedere dall'esperienza e dall'induzione logica, invece che dall'autorita' del passato, e che il conoscimento e il potere fossero la stessa cosa (Bacone), e poi piu' avanti che la certezza dovesse essere il prodotto del dubbio assoluto (Descartes). Poi sono passati secoli e successe cose, ma si e' arrivati nel secolo xx a un'applicazione vera e propria del metodo scientifico, quantitativo, alle scienze sociali. Modelli di comportamento elettorale, di previsione dei conflitti armati, di comportamenti economici, ecc.
Naturalmente il passaggio dagli esordi della modernita' ai tempi nostri e' stato molto lungo, e nel frattempo ci sono state tante cose nel mezzo. Anzi, autori come Machiavelli, Hobbes o Bacone, avevano allo stesso tempo tanto di moderno, quanto di antico (e anche da qui il fatto che siano cosí interessanti), ma diciamo che le radici piu o meno vanno rintracciate li'.
Comunque, perche' ti faccio questa ricostruzione storica? Perche' da li' emergono alcuni temi importanti. Prima di tutto la questione della differenza tra cio' che e' e cio' che dovrebbe essere. Poi, il tema della relazione tra conoscimento e potere, e infine quello della certezza.
Mi concentrero' sul primo, anche se poi tutti e tre sono correlati e interdipendenti. Allora, per iniziare si puo' dire che una delle differenze che piu' saltano all'occhio tra le scienze naturali e quelle sociali, e' il fatto che nelle prime esiste una separazione tra l'oggetto di studio e il soggetto che compie lo studio. Cioe' si studia il fenomeno naturale da una perspettiva esterna, dello spettatore che si mette li' e guarda quello che succede. Applicato alle scienze sociali questa condizione si traduce nella pretesa che lo scienziato distingua chiaramente tra "fatti" e "valori". I primi sono propriamente l'oggetto di studio; oggetto di studio che va affrontato da una posizione neutrale, da cui i valori dello scienziato debbono essere tenuti fuori. Anche quando l'oggetto di studio sono i "valori" (le credenze morali, per es.), questi vanno esaminati come fossero "fatti", cioe' oggettivati e studiati dall'esterno.
Questa pretesa "scienticista" portata avanti nelle scienze sociali dal positivismo e' il vero punto debole e pericoloso di chi vuole plasmare le scienze sociali sul modello di quelle naturali. Lo scienziato sociale non potra' e non dovra' mai lasciare da parte i suoi valori, sia perche' questo e' impossibile - la stessa scelta dell'oggetto di studio e' determinata dai nostri interessi, da cio' che crediamo importante - sia perche' e' pericolosa, perche' significa che lo scienziato sociale si esonera dal compito di decidere cosa e' importante o no nel suo lavoro, e diventa uno mero strumento del potere.
Appunto, invece di mettere la scienza al servizio del benessere generale, la rende puro strumento utilizzabile da chi detiene il potere e decide autonomamente cosa e' buono o no per la socita'. Questa posizione appunto mostra chiaramente l'equazione che la modernita' stabilisce tra sapere e potere. Quest'ultimo e' quello che comanda, usando il sapere come mezzo per ottenere i suoi fini. Nell'antichita', e in altre tradizioni culturali, come il giudaismo per esempio, il sapere era fine a se stesso. Cioe' non era strumento ma fine. Sapere e felicita' piu o meno coincidevano.
Ma il problema non e' solo questo. Come abbiamo detto, nelle scienze sociali (ma in realta' anche nelle scienze naturali) non si puo' pretendere una posizione neutrale da parta dello scienziato, ma imparziale si. I suoi valori, cioe', lo devono guidare pero' senza cadere nella faziosita', nella partigianeria. Quello che lo deve guidare e' sempre l'amore per il sapere (filosofia). In secondo luogo, e qui entriamo in un altro tema fondamentale, le scienze sociali, trattando appunto di azioni umane, non si interessano solo dei "fatti" ma dei "significati".
Cioe' non devono solo stabilire in che modo, per esempio, una societa' raggiunge un minor o maggior grado di ordine interno, ma stabilire che significa quel determinato concetto di ordine. Questo vale anche per quanto riguarda i comportamenti, diciamo cosi', piu' meccanici degli uomini (tipo quelli economici, di abbastamento alimentare, per esempio).
L'economia, anche se ha beneficiato molto dell'introduzione dei modelli matematici nel suo seno, non puo' prescindere dallo sforzo di significazione dei fenomeni che studia. Per esempio, la stessa legge della domanda e della offerta, dovra' determinare perche' un bene si domanda in minor o maggior misura. E questo non potra' essere fatto semplicemente determinando una serie di preferenze degli individui, e da esse preferenze aggregate, costruendo modelli in cui si introducono variabili numeriche per ogni tipo di fattore che influenzia la scelta. Questo si puo' fare e i risultati, possono essere abbastanza buoni, ma cosi' facendo non si affronta una questione centrale: che l'azione umana non puo' essere ridotta a dei numeri.
Non e' in gran parte quantificabile. Il suo significato richiede invece un approccio interpretativo, discorsivo. Come diceva Arendt, l'errore dei materialisti e' credere che "la materia" ha lo stesso significato per tutti. Non e' la stessa cosa, per esempio, chi vuole solo i soldi perche' la sua psiche e' disturbata da una sorta di attaccamento feticista al denaro, o chi, invece, lo fa, per esempio, per smania di potere o per esibizionismo. Questi tre atteggiamenti anche se puntano allo stesso obiettivo (avere piu soldi) detemineranno comportamenti differenti e andranno affrontati in modo diverso.
Nella scienza politica, poi, questa questione diventa fondamentale. il suo scopo e' quello di capire come funziona la politica, cioe' le relazioni di dipendenza in una comunita'. Queste non possono mai essere considerate come oggetti neutrali, perche' implicano sempre una visione del bene e del male. La filosofia politica antica, a differenza di quella moderna, parte sempre da questo presupposto: cioe' che essa debba interessarsi ad avere una visione del tutto, anche se sa perfettamente che questa visione totale le e' impossibile da raggiungere. L'uomo non potra' mai conoscere il perche' delle cose fino in fondo, ma dovra' essere sempre consapevole che, in quanto uomo, il suo agire si muove indirizzato da questo anelo verso l'assoluto (sto diventando troppo mistico?).
Pero', nonostante questo interesse per il tutto, esattamente la consapevolezza dell' impossibilita' di conoscere il tutto sara' cio' che la spinge a ribassare le sue pretese, e a considerare la prudenza come una delle principali virtu'. Anche in questo punto, si vede la differenza con l'atteggiamento della scienza moderna: se questa ha messo da parte l'interesse per il tutto, d'altra parte ha suddiviso la realta' in varie aree, settori, e in ognuna di esse ha preteso erigersi a padrone attraverso la sua fiducia nelle capacita' di conoscere. Il conoscimento della natura, per esempio, per il controllo su di essa.
Arrivati a questo punto stiamo toccando un'altra questione che anch'essa richiederebbe molto spazio: il conoscimento come strumento di controllo, e la oggettivizzazione di cio' che si studia da parte del soggetto che la studia, con il fine del controllo su di essa. Ma questo tema ci porterebbe troppo lontano.
Tornando alla questione del significato, un esempio pertinente della differenza nello studio delle relazioni umane tra gli antichi e i moderni e' dato dal fatto che, per esempio, Aristotele, in relazione ai legami che tengono unita una comunita' politica, si interessava al tema dell'amicizia, mentre che i moderni, in questo atteggiamento scienticista, alla relazione tra il Io e il Tu.
Aristotele studiava la amicizia come un qualcosa di concreto, vivo, su cui si potevano fare delle generalizzazioni ma che pero' era impossibile da rinchiudere in delle formule, i moderni, invece, attraverso l'astrazione, cercano di rendere questa relazione Io - Tu universale e dopodiche' di applicare le sue regole nei casi concreti.
E' evidente che il significato del concetto di amicizia, sfugge qualsiasi definizione astratta, e va cercata nei casi concreti, e va interpretata piu che oggettivata. in essa ci sara' sempre un surplus di significato che non possiamo definire chiaramente, che non possiamo controllare, ma che tuttavia e' fondamentale. E cio' e' vero in generale per tutto quello che chiamiamo "valori".
Da tutto quanto detto risulta che l'applicazione di un metodo scientifico nel campo della storia, con il fine di prevedere i futuri comportamenti, risulta poco plausibile, perche' la natura dell'uomo, come diceva Vico, a causa del libero arbitrio e' resa incertissima e quindi difficilmente previsibile. Quindi se ci fosse una scienza storica che sapesse piu' o meno prevedere i comportamenti futuri significherebbe che l'uomo avrebbe perso la sua liberta'.
Bisogna poi vedere quanto lo stesso fatto di voler vedere la storia attraverso lenti analitiche contribuisca a che realmente l'uomo si comporti come i modelli che lo vogliono descrivere. Ma questa e' un'altra questione. Bisognerebbe ricordarsi, per concludere, che gia' Aristotele diceva che il metodo di ogni disciplina dovrebbe plasmarsi sulla materia di quella disciplina, sul suo oggetto di studio, e non viceversa.
F. Ora un ultimo punto, che e' collegato parecchio anche se forse non sembra. Lasciami fare l'avvocato del diavolo, cosa che mi piace, ed esagerare un po'.
Il libro che mi hai dato (Hannah Harendt, The human condition) )mi piace, pero'. Pero' e' scritto per pochi, e la cosa a ogni pagina mi fa girare le palle ad elica. La signora, e tutti voi filosofi, capite le cose in grande profondita', ma non sapete comunicarcele a noi poveri mortali. Devo leggere le frasi di dieci righe minimo tre volte per capirci qualcosa. perche'? Io, come tutti quelli che leggono articoli scientifici, ma ormai vale pure x i ragazzini di youtube, siamo capaci di poco sforzo alla volta. Di frasi semplici in cui le idee vengono esposte chiaramente. La tua amica non lo sa fare proprio. Scrive benissimo per carita', ma non e' lettura facile, anche in quelle frasi in cui dice cose semplici.
Saranno i tempi diversi, e l'uso della retorica che vi sta tanto a cuore. Prova per favore a convincermi che usare un linguaggio complicato, arzigogolato e frasi kilometriche e' funzionale al messaggio. Perche' ora ci credo a fatica, mi sembra un nascondere dietro a una bella cornice un quadro semivuoto (parlo di singole frasi qui, non del libro in toto). A volte traducendo frasi di 12 linee ci trovo solo frasi tipo : lo schiavo greco era infelice.
Lo so , e' uno sfogo. Immagino gia' la risposta: la complessita' delle cose che si vuole comunicare e' tale che non puo' essere solo detta tramite concetti dicibili, va fatta sentire pure in altro modo, e la retorica e' funzionale a quello, un po' come mettere profumo in un libro , o stamparlo su carta igienica o carta vetrata, o scrivere una poesia.
Ma la poesia, se la similitudine tiene, e' intima, personale, a me dice "a" a te "b". La signora in questione invece sono sicuro che ha chiaro quello che vuole dire, e allora perche' non me lo dice piu' semplicemente? perche' mi fa sentire scemo? perche' lo sono, ok, pero' se io faccio tutta quella fatica, pur piacendomi (cioe' meglio, lo trovo importante farlo) , quanta gente potra' leggere quel libro nel mondo? non e' un valore da cercare la diffusione delle tue idee? forse e' questo il punto.
Forse e' per questo che non scrivi un blog e io si. Voi filosofi volete fare come i pittori e diventare famosi solo da morti? volete cambiare la gente tra 50 generazioni, quando saranno pronti a leggervi? aspettate che dall'alto il vostro verbo scenda pian piano giu' nella societa' fino ad intaccare finalmente il postino all'angolo? Perche' dovete (con le vostre idee) arrivare al postino all'angolo e la sciura della porta accanto alla fine, altrimenti e' stato tutto inutile. Mi dai ragione su questo?
Aristotele e' stato un grande filosofo perche' le sue idee hanno forgiato la societa' tutta (le gente moriva a causa di quelle idee) per tempo immemorabile. Perche' i filosofi studiano , scrivono, leggono, traggono conclusioni, altrimenti? Dopo aver fatto tutto quello che volete, dovete divulgarlo!
Questo e' in effetti quello che gli intellettuali hanno sempre fatto e chissa' sempre faranno. Ma c'e' qualcosa che non mi piace in questa dinamica, forse e' che siamo nel tempo di internet e ormai se una cosa non e' letta dopo i primi dieci minuti da quando e' scritta, e almeno da mezzo milione di persone, rischia di scomparire. Che ne dici?
Quindi insomma, il problema della diffusione delle idee. E' davvero cosa necessaria? oppure il poeta non deve badare a questo? ma un filosofo e' un poeta o uno scienziato? Essendo pagato dalla cosa pubblica (come nella maggior parte dei casi), a me sembra che debba poi curarsi della massa indistinta che gli permette di voleggiare nel mondo delle idee e poi mangiare la pagnotta. Quindi per questo mi sembra che la divulgazione sia cosa necessaria. Oltretutto divulgare (ma non intendo con fumetti per bambini, mi raccomando) e' anche modo per smascherare: c'e' qualcosa sotto la cornice di belle parole? ci sono idee davvero sostanziose? C'e' bisogno di sei linee per dire una cosa che puo' essere detta in tre parole?
Qui la mia formazione scientifica prende il sopravvento: noi dobbiamo esprimere tutto in termini "semplici". Qui semplice significa non "facile", ma primario, basilare, quindi appoggiare il discorso una base ormai assodata da tutti. E quindi, in principio dopo un po' di sforzo per informarsi, comprensibile da tutti.
La retorica (chiamo retorica, chissa' se a torto o no, il linguaggio e tutti i suoi strumenti dai grammaticali a quelli piu' alti) che funzione ha? E' davvero necessaria? Mai e' usata come schermo, per nascondere un vuoto? Non deve la retorica essere solo strumento per aiutare a capire meglio? Ma il farsi capire e' o no il fine ultimo (dopo aver qualcosa da dire,certo)? Se hai l'idea geniale per rivoluzionare diciamo, il concetto di democrazia, non deve essere possibile esprimerlo in parole comprensibili ai piu'? O forse il mestiere del filosofo non e' quello di avere idee nuove, brillanti e perche' no, rivoluzionarie? Aristotele o platone o Kant rivoluzionarono qualcosa ? oppure sono solo come i piu' bei fiori del campo? la coagulazione in bellezza "non utile" del pensiero del loro tempo? Qualcosa di proveniente, si, dalla societa', come un fiore dal ramo, ma che a quella societa' non da' nulla, solo semi per tempi e persone a venire, magari dopo generazioni e generazioni? Ho appena usato una figura retorica.... Spero abbia fatto capire meglio che volevo dire.
P. Qui tocchiamo ancora una volta un altro punto molto importante. Cioe' la precisione e definizione con cui il linguaggio usato nelle scienze sociali deve essere concepito. Ci si lamenta spesso che nelle scienze sociali e in filosofia ancor piu' si usa un linguaggio poco chiaro, indefinito, vago. Ebbene, se spesso questo e' frutto della sciatteria e di una scarsa capacita' di comprensione del fenomeno, altre volte e' una necessita' e ancor piú una salvezza.
Se e' vero che e' fondamentale essere coerenti, precisare, differenziare, e' anche vero che alcune cose non sono chiaramente definibili. E che i concetti e le definizioni vanno applicate e riconfigurate d'accordo con l'esperienza contingente.
L'amicizia per esempio. Uno puo' dare una definizione generale, distinguendola, per esempio, dal compagnerismo. Pero' poi ogni caso avra' le sue peculiarita'. E, cio nonostante, rimarra' un concetto universale. Universale pero', non nel modo di una legge matematica, ma nel modo in cui e' universale una poesia di Petrarca. E proprio una poesia magari sara' cio' che evocando, invece di definendo, potra' estrarre questa sua universalita' nel modo migliore.
Mi chiedevi se il filosofo e' piu poeta o scienziato. Una bella domanda, non c'e' che dire. E una che mi tiene da tempo in ballo. Cosí, per mettere il carro davanti ai buoi, ti diro' che, come sospetterai, per me e' molto piu poeta che scienziato. Ma ovviamente, questa presa di posizione un po' partigiana, va precisata e specificata. In realta' e' un qualcosa a meta', anche se per me, piu vicino al poeta che allo scienziato. Questo perche' piu' che capire come funziona la realta', deve interpretare cosa questa significa per un essere umano in quanto essere umano. Il che e' in fondo l'unico che puo' fare.