November 18, 2007

Quanta Realta' ?

0.0 Premessa

Scrivere un post e' per me cercare di mettere in chiaro cose che ancora non lo sono ma ho la speranza che lo diventino mentre le righe avanzano. Lo faccio per me, e poi magari se una volta chiarite a me, lo possono essere anche per altri, allora c'e' una sorta di nuova soddisfazione, e magari ci si guadagna in piu' persone. Quello su cui mi sto imbattendo nei ritagli di tempo in sto momento, sono degli indizi che trovo in giro, nel mondo chiamato scienza, che sembrano tutti dirci che il mondo in cui viviamo non e' detto che sia cosi' come ci sembra. E' un filo che lega la percezione dei colori a teorie di biologia (Francisco Varela) o antropologia che arrivano ai sistemi dinamici (Gregory Bateson), per esempio. Il tutto sembra dirci che la percezione e l'esperienza del mondo che abbiamo quotidianamente, non e' cosa cosi' salda come pare, oggettiva e universale. Ma in verita' completamente dipendente da noi, osservatori e allo stesso tempo attori dello spettacolo a teatro. Ma non parlo di personalita' o carattere, e non di situazioni sociali, cioe' non solo. Ma di cose molto piu' elementari e considerate oggettive, su cui poi ci si costruisce tutto, tra cui la propria personalita' per esempio, che pero' e' piani e piani piu' in alto. La scienza mina le nostre fondamenta elementari, questo e' quello di cui volevo parlare qui. Nel senso che quando va a vedere di cosa il tutto e' fatto (gli atomi, gli elettroni e le particelle elementari che formano tutto e tutti) la realta' a cui siamo abituati e soprattutto la logica che ne consegue, si sgretolano, non valgono piu'. Pero' invece di sgretolare e lasciare il deserto, e' come se abbattesse un muro, la realta' e la concezione che ne abbiamo diventa piu' ampia, lo sguardo capisce che prima c'era un ostacolo. In verita' questo magari succedera' tra generazioni. Per ora noi, io almeno, rimaniamo come increduli davanti a una magia, tornandocene al nostro piatto di spaghetti e pensando a che fare nel week end, se non piove.

La cosa e' parecchio tecnica, lo ammetto, ma spero possa attirare curiosita', sopratutto nelle sue stranezze che se riportate alla nostra dimensione, diventano magia pura.

1.0 Strana realta' quantistica

Fin dall'universita' un piccolo tarlo mi rodeva la gia' bacata testolina, dopo finalmente aver studiato nei primissimi dettagli quella che e' un po' lo stereotipo della fisica difficile che nessuno mai puo' capire. Sempre c'era un'aurea di riverenza verso questa meccanica quantistica, teoria strana e difficile, che sembrava avere implicazioni che uscivano dalle pagine piene di equazioni di libri costosissimi e ovviamente fotocopiati. La matematica li dentro, per uno studente del terzo anno, non e' poi cosi' impossibile, tutti lo ammettevano. Ma allora cosa c'era di strano in quella teoria nata solo cent'anni fa, in un periodo in cui la densita' di geni in terra (ci sono tutti nella foto alla conferenza di Solvay del 1927) fu qualcosa di mai piu' visto? Tra l'altro, per un fisico, quella foto rappresenta il pantheon delle divinita' dei libri sacri (tra cui: Ehrenfest, Herzen, Schroedinger, Pauli, Heisenberg, Brillouin, Debye, Bragg, Dirac, Compton, de Broglie, Born, Bohr, Planck, Curie, Lorentz, Einstein, Langevin), e sembra quasi strano vederli li in carne ossa e cappello in mano, piuttosto umani (o insomma, quasi). Eccezionale lo sguardo fiero di madame Curie (che sembra un po' mia nonna), unica donna in un periodo in cui non doveva essere facile avere la gonna ed essere intelligente e caparbia.

Comunque, la teoria che quella gente formulo' in quegli anni, toglie da sotto i piedi la terra di chiunque si metta a leggerne i contenuti e le implicazioni, e non per niente Einstein sembra davvero aggrapparsi alla sedia ed essere quasi stordito nella foto. Einstein all'epoca era gia' stato incoronato dai suoi pari e dall'opinione pubblica. Pero' il suo mondo era ancorato al passato, per cosi' dire. Mai riusci' ad accettare la meccanica quantistica come qualcosa di completo e privo di buchi. Non ci credeva insomma. Da li' viene il suo detto Dio non gioca a dadi, per indicare la sua sfiducia alla teoria che stava nascendo e stava descrivendo la realta' su nuove basi probabilistiche.

Si puo' dire che Eistein incarna il realista che e' in tutti noi, che e' qualcosa di abbastanza sensato, almeno prima del 1920. Oggi chissa'. Realista in questo caso non ha nulla a che vedere coi re, ma significa credere che esista una realta' la fuori, oggettiva, che possa essere osservata, misurata, che sia regolata deterministicamente da regole nascoste si, ma con sforzo raggiungibili dall'intelletto umano. Questo sforzo si chiama scienza, e in effetti di cose da Galileo alla luna al genoma umano, e' riuscita capirne (e usarne).

Alla base della scienza moderna, fino all'arrivo della meccanica quantistica, ci sono sempre stati quindi i seguenti presupposti, riassunti nel termine un po' spaventoso di realismo locale, caro ad Einstein. In pratica:

  • Realismo: tutti gli oggetti hanno delle caratteristiche proprie pre-esistenti a qualunque osservazione, o misura, che poi noi possiamo fare, e che poi l'osservazione potra' mettere in evidenza. Un cubo rosso e' un cubo rosso prima ancora che io lo guardi, e se decido di misurarne la forma poi trovero' che e' cubica, se decido di osservarne il colore, vedro' che e' rosso, rimanendo lui un cubo. Einstein diceva come esempio che la luna e' lassu' anche quando nessuno la sta guardando. Insomma, una separazione netta tra soggetto e oggetto, la realta' la fuori non dipende da me che la guardo.
  • Localita' (per cui il realismo e' locale): locale in fisica o in matematica vuol dire sempre qualcosa di vicino. Qui ha a che vedere con le cause e i loro effetti. Una causa in generale puo' avere effetti solo dove lei si trova e non altrove, almeno prima di un certo tempo. Dopo la relativita' di Einstein, che ha come ipotesi che nulla viaggia piu' veloce della luce nel vuoto, si puo' dire che una causa in un punto dello spazio non puo' avere un effetto in un altro punto dello spazio almeno prima che la luce arrivi dal punto in cui sta la causa al punto in cui sta l'effetto. Se batto le mani, senti il rumore dopo che il suono, molto piu lento della luce, arriva dalle mie mani al tuo orecchio. Se accendo un cerino, vedi la luce della fiamma dopo un tempo un poco piu' lungo (perche' c'e' l'aria di mezzo) di quello impiegato dalla luce per arrivare dal cerino all'occhio. Nulla arriva piu' veloce della luce, non un effetto dopo la sua causa, e ovviamente non prima.
  • Determinismo: ci sono delle regole alla base degli eventi, per quanto complicate possano essere.

Quindi nella scienza classica, lo scienziato, cioe' l'uomo, osserva una realta' che e' li' indipendendemente da lui, deterministica, che ha le sue proprieta' prima di essere osservata, e in cui la relazione causa-effetto si propaga al massimo alla velocita' della luce, ma non di piu'. La meccanica quantistica mina queste certezze, e le mina sopratutto perche' in quasi cent'anni nessuno e' ancora riuscito a fare un esperimento che mostri che la teoria non funzioni. Anzi, per ora tutti gli esperimenti fatti indicano che e' tutto giusto, e che quei capisaldi della scienza classica forse non sono troppo saldi. Sembra proprio che Einstein non avesse ragione. Mi spiego, spero.

Gli oggetti matematici che la meccanica quantistica gestisce (sono chiamate funzioni d'onda) non sono oggetti come la massa o il peso (oggetti della scienza classica), definiti chiaramente con un numero, ma sono sempre legati a una certa probabilita' di trovare una certa quantita' quando si fa un'osservazione. Non c'e' piu' determinismo stretto, ma solo probabilita' di avere un certo risulato, e questo dopo aver osservato. L'osservazione diventa fondamentale: solo dopo essa l'oggetto davvero prende quel valore per quella quantita' che volevo misurare. Prima semplicemente non ce l'aveva, o meglio aveva una probabilita' di avere quella come altre. E tutte le evidenze sperimentali indicano che la probabilita' non e' dovuta, come voleva Einstein, a una nostra ignoranza sull'oggetto, ma quella di non avere una proprieta' completamente definita sarebbe davvero la nuova realta' dell'oggetto prima di essere osservato. La nuova realta', rispetto a quella della scienza classica pre-quantistica, almeno per gli oggetti come elettroni, fotoni, atomi, e' fatta da oggetti che sono come pluripotenziali, e solo la nostra osservazione li fa collassare (si usa proprio questo verbo) da un mondo di indeterminatezza e pura probabilita' alla realta' che vediamo coi nostri occhi e con i nostri strumenti di misura.

Questo uso della probabilita', che puo' in effetti essere scambiato come ignoranza nostra della cosa com'e' in verita', si vede oltretutto in alcune quantita' fondamentali, come la posizione di un oggeto o la sua velocita', che sono complementari: o sai una o sai l'altra, oppure, se vuoi entrambe, le puoi avere solo fino a un certo grado di precisione, cioe' con una certa probabilita', che non dipende dall'accuratezza del tuo strumento di misura. E' il principio di indeterminazione di Heisemberg (il terzo in alto a destra che guarda convinto, per nulla indeciso, la camera).

2.0 Tre esempi per confondere di piu'

E' tutto molto fumoso, lo so, se non si e' mai entrati nei dettagli. Ma i dettagli esistono e sono a disposizione di tutti i curiosi con tempo a disposizione, questo e' importante da sapere. Provo a raccontare tre cose, tre esperimenti di meccanica quantistica che colpiscono perche' vanno diritte al cuore del problema: che diavolo di realta' e' questa qui?

2.1 Stern-Gerlach

All'inizio del secolo gia' si conoscevano particelle come elettroni, ma ancora non era chiara la loro natura (forse nemmeno oggi a dirla tutta). Se si pensava classicamente (= scienza prima della quantistica), tali oggetti (fotoni, atomi, elettroni, protoni..) potevano essere delle piccole sferette. Quello che si sapeva era che se mai avessero girato su se stesse, avrebbero avuto un momento angolare (come una piccola freccia che le attraversa, un vettore). Stern e Gerlach nel 1922 pensarono e costruirono un marchingegno, basato su un campo magnetico non uniforme, che avrebbe potuto distinguere i vari momenti angolari delle particelle sparate in forma di raggio da un forno, misurandoli lungo una direzione scelta a priori (come nella figura). Quello che ci si aspettava sarebbe successo, secondo la fisica classica, era che delle sferette che uscivano da un forno avrebbero avuto il loro momento angolare orientato nello spazio in modo completamente casuale. In soldoni, il marchingegno poteva deviare verticalmente le particelle dalla loro corsa orizzontale, proporzionalmente all'angolo del loro momento con la direzione del raggio. Se la fisica classica tenesse (quindi sferette, quindi direzioni casuali dei momenti all'uscita del forno), all'uscita del marchingegno si sarebbe visto il raggio di particelle allargato verticalmente in maniera omogenea: tutti i possibili momenti (i vettori, le freccie) in entrata, e quindi tutte le deviazioni in uscita, sarebbero state presenti.

E invece no (altrimenti non avrei usato con difficolta' tutti questi condizionali passati). Solo due direzioni, due deviazioni del raggio, furono osservate (e lo sono tutt'oggi). La teoria spiega: le particelle e' come se ruotassero, ma in verita' non lo fanno. Il momento angolare c'e' ma e' invece una proprieta' intrinseca, difficile se non impossibile da visualizzare, chiamata spin. Lo spin in una direzione data puo' avere solo due componenti, in alto o in basso (positivo o negativo).

Quindi, e ora viene il bello, almeno credo, questo marchingegno sembra poter separare le due diverse componenti di questo spin. Quindi mettiamo due o piu' marchingegni uno dopo l'altro, come nella figura (da Wikipedia).

  • Nel caso in alto prima viene separato lo spin lungo la direzione z. Da li' quindi si prendono solo le particelle che hanno spin lungo z positivo (le altre si bloccano) e le si infilano ancora in un simile apparato che, allineato ancora lungo z, discrimina lo spin lungo z. Ovviamente si vedranno all'uscita del secondo solo quelle con spin positivo. Nulla di strano, quelle entravano, quelle uscivano.
  • Nel secondo caso, quelle con spin positivo lungo z in uscita dal primo, vengono mandate in un apparato che questa volta discrimina lo spin lungo la direzione x (perpendicolare a z). All'uscita del secondo marchingegno si avranno entrambe le componenti positive e negative lungo x. Qui sembra di poter dire: quelle particelle che avevano z+ (spin positivo lungo z) possono avere spin + oppure - lungo un'altra direzione (x). E invece no.
  • Andiamo allora al terzo, dove ci sono tre marchingegni in fila. Il primo "seleziona" solo le particelle con z+, il secondo, tra queste, quelle con x+, e il terzo infine di nuovo misura lungo z. Cioe', il terzo misura lungo z le particelle che gia' sono state "selezionate" avere z+ (e x+), quindi uno si aspetta che all'uscita del terzo marchingegno ci siano solo particelle con z+. E invece no. Se ne trovano con spin positivo e negativo, equamente distribuite (z+ e z- al cinquanta per cento). Il fatto di passare per il secondo apparato e' come se cancellasse la proprieta' delle particelle di avere spin positivo in verticale (z+), per tornare ad averne sia positivo che negativo. La conclusione e': una singola particella non puo' avere allo stesso tempo un valore definito sia per lo spin lungo z sia lungo x. In termini matematici, non puo' essere contemporaneamente in un autostato degli operatori di spin x e z, Sx Sz. Sono due proprieta' che non possono coesistere, se guardo l'una perdo la determinazione dell'altra.

Classicamente e macroscopicamente il terzo esperimento sarebbe circa cosi': avere il nostro cubo rosso in una scatola chiusa (le particelle dal forno) e decidere di capire che forma ha. Quindi toccarlo a occhi chiusi, e capire che e' cubico (il primo marchingegno). Poi allora decidere di vedere che colore ha, e quindi vederne solo un pezzettino da un buchino della scatola (per non vedere la forma), e capire che e' rosso (il secondo marchingegno). Poi decidere di toccarlo nuovamente (il terzo marchingegno), per capire meglio la forma, e avere la sorpresa di trovarlo sferico cinquanta volte su cento che proviamo! La cosa e' talmente lontana dalla realta' di tutti i giorni, quanto confermata ormai da quasi 90 anni di esperimenti!

Dov'e' il trucco? Non lo si sa, questa e' la verita'. Anzi, sembra che trucco non ci sia, che la realta' sia proprio quella. Ovviamente quello che piu' colpisce e' la magia del cubo rosso, oggetto "grande", macroscopico, che puo' essere toccato, piu' di questa strana proprieta' di avere spin positivo o negativo lungo due direzioni. Qui il trucco c'e', e sta negli oggetti in questione. Per ora l'incredibile esperimento funziona solo con oggetti microscopici (anzi, meno che micro- forse atto-scopici sarebbe meglio). Un cubo rosso e' formato da miliardi e miliardi di atomi ed elettroni. Quando un tale enorme numero di particelle quantistiche entra in contatto, sembra che le regole cambino, e che in effetti la realta' di cui facciamo esperienza noi quotidianamente si dimentichi delle sue proprieta' quantistiche. Qui si entra in un campo di cui non posso dire molto, governato dalla cosi' detta decoerenza quantistica. Ma sorvolo. Comunque sia la magia c'e' e lo stupore rimane perche' comunque noi stessi siamo fatti di quella materia che presa singolarmente si comporta in maniera cosi' misteriosa.

2.2 Entanglement

Che nulla possa propagarsi piu' veloce della luce, e' cosa davvero assodata nella nostra fisica di oggi. E' un credo che difficilmente alcun scienziato vorra' ormai abbandonare. In effetti non so bene il perche' di tanta devozione, essendo un'ipotesi che regge a ogni prova sperimentale da solo un centinaio d'anni. Ne va forse della nostra concezione di tempo, che dipende da questa costante universale, la velocita' della luce. Comunque cosi' e'. Nulla piu' veloce della luce.

E' ironico che fu proprio Einstein nel 1935, con Podolsky e Rosen, in un articolo ormai leggendario e in testa a tutte le classifiche di citazioni avute, a proporre un esperimento mentale che, nelle intenzioni, voleva dimostrare come la meccanica quantistica non fosse una teoria completa, e che invece nella pratica, quando l'esperimento fu fatto, si dimostro' essere al contrario una conferma delle idee pazze della teoria. Vediamo.

Una particella con spin totale zero, puo' scoppiare, decadere, e dividersi in due particelle che volano in direzioni opposte. Lo spin totale pero' non puo' cambiare (conservazione del momento angolare), quindi le due nuove particelle dovranno avere lo spin opposto, positivo una e negativo l'altra. Quale delle due avra' spin positivo o negativo, e' lasciato al caso. Lungo la loro linea di volo si mettono due apparati di Strern e Gerlach, chiamiamoli A e B, in modo da misurare lo spin delle due particelle lungo una direzione precisa, quando sono ormai ben lontane una dall'altra. Le due particelle, siccome vengono da una sola particella scissa in due, sono in verita' un solo sistema, descritto da un'unica funzione d'onda, una sola funzione che intreccia, intrica (entanglement), unisce, due particelle che ormai sono ben distinte e lontane. Questa funzione formalizza quello gia' detto: se una ha spin +, l'altra deve avere spin -. Quello che sbalordisce, e mi c'e' voluto un po' a capire perche' sbalordisce, e' che se l'apparato A misura lo spin lungo z e trova +, allora istantaneamente la particella che vola verso B avra', anche prima di essere misurata, spin z -, e viceversa. Siccome le due particelle sono un unico sistema, la misura di una istantaneamente (piu' velocemente della luce) definisce l'altra, anche se tra le due ci sono anni luce di distanza.

Qui il problema e' che, almeno per me vale, si e' spinti a ragionare in termini classici, e non si trova nulla di strano: ho una pallina nera e una bianca, le prendo a caso ognuna in una mano senza guardare, le separo e poi guardo quella nella mano destra. Se vedo che e' nera, magia, quella nella mano sinistra sara' determinata piu' velocemente della luce e sara' bianca. Questo e' il modo di ragionare realista, caro ad Einstein, per cui la teoria sarebbe semplicemente incompleta, e noi ignoranti in qualcosa, ma gli oggetti sempre devono avere le loro proprieta' definite, indipendendemente da noi che osserviamo o no. E invece no.

Il problema e' che i due apparati A e B possono decidere di misuare lungo direzioni diverse. Nell'esperimento di Strern e Gerlach si e' vista la cosa magica che una particella non ha allo stesso momento un valore definito sia per lo spin lungo z sia per quello lungo x. E' solo dopo la misura che prende possesso di un valore definito in una solo delle delle due, mai insieme. Se misuro uno, perdo l'altro. Qui ora non solo succede questo, ma in piu', una volta che una particella e' misurata, e quindi collassa su un certo valore, e' come se lo comunicasse istantaneamente all'altra che sta a mille miglia di distanza, non curante della nostra legge sulla velocita' della luce. Se A e B, invece che lungo z, decidono di misurare lungo x, troveranno sempre i loro risultati correlati perfettamente (+ - oppure - +). Ma le particelle non hanno un valore definito dello spin lungo z e x allo stesso tempo, quindi non possiamo immaginarle uscenti dalla loro sorgente in uno stato definito in x e z allo stesso tempo. E quindi la prima deve in qualche modo comunicare instantaneamente alla seconda lungo quale direzione lei e' stata misurata, per poi avere al cento per cento correlazione con la seconda, correlazione che succede in effetti negli esperimenti.

Immaginarlo classicamente sarebbe qualcosa cosi': avere un cubetto e una sfera su un tavolo coperti da due bicchieri rovesciati (non trasparenti). Sappiamo che uno e' bianco e l'altro e' nero, ma non sappiamo chi ha quale colore. E non sappiamo dove sta il cubo e dove la sfera. Li allontaniamo un po' e senza guardare tocchiamo uno dei due alzando il bicchiere, e sentiamo che e' il cubo. Allora istantaneamente sotto l'altro bicchiere sappiamo che c'e' la sfera, e possiamo controllare ed e' in effetti vero (sempre senza guardare). Ora vogliamo vedere il loro colore e guardiamo da uno spioncino di un bicchiere (senza vederne la forma) e vediamo che dove abbiamo capito esserci il cubo, il colore e' bianco. Ancora una volta istantaneamente sotto l'altro bicchiere ci sara' l'oggetto nero, controlliamo ed e' vero, e' nero. Quindi siamo alla facile conclusione classica e realista: il cubo e' qui ed e' bianco, e la sfera e' li' ed e' nera.

Pero', tanto per essere sicuri ritocchiamo senza guardare li' dove c'era il cubo, e diavolo, ci troviamo la sfera!. E se riproviamo tante e tante volte, alla fine ci convinciamo che non c'e' modo di dire esattamente con certezza sotto questo bicchiere c'e' un cubo bianco. Quindi succedono due cose: primo, l'essere cubo e avere il colore bianco sono due proprieta' che non possiamo sapere allo stesso tempo (spin definito lungo z e x), come succedeva per Stern e Gerlach. Secondo, una volta che sappiamo una di queste proprieta' per un oggetto, l'altro istantaneamente prende la stessa qualita', ma complementare, senza errori, con un'informazione che ha viaggiato piu' velocemente della luce e che non faceva dormire sonni tranquilli ad Einstein e a ai poveri mortali realisti locali che vogliamo toccare e vedere e conoscere tutto in un solo momento.

2.3 Dualita' onda particella: esperimento di Young

Quindi fin'ora la realta' delle particelle che compongono tutta la materia si scontra con il nostro buon senso almeno per quanto riguarda il possedere qualita' o proprieta' definite a prescindere che noi le si osservi o no, e per quanto riguarda la trasmissione di informazione a velocita' maggiori di quelle della luce. Nell'esperimento di Young, succede una cosa simile alla prima: non sappiamo la vera natura degli oggetti considerati, e se anzi puo' davvero esserci una sola natura per loro. La domanda e': gli oggetti in questione sono delle onde distribuite nello spazio (cioe' infinite) o delle sferette solide ben localizzate in un punto? Sembra che queste benedette particelle siano le due cose insieme, altrimenti non si spiega come possa essere quello che si vede ormai da duecento anni in tutti i laboratori del mondo.

Young fece il suo esperimento nel 1801, giustamente per capire se la luce fosse costituita da particelle solide come palline, o da onde che viaggiassero in un mezzo che all'epoca era considerato necessario e chiamato etere. Il fenomeno che doveva poter fare la distinzione e' l'interferenza, cosa che succede solo a onde e non a oggetti solidi. L'oggetto onda e' una deformazione di un mezzo che puo' viaggiare. Esempi semplici sono le onde del mare, le cui creste possono essere identificate e seguite nel loro viaggio per decine di metri (basta pensare ai surfisti), o quel colpo di frusta che si puo' dare col braccio a una lunga corda e che crea appunto un'onda che viaggia nella corda allontanandosi dalla mano abbastanza velocemente. In verita' ci sono onde come le onde elettromagnetiche (cioe' la luce, le onde radio, le microonde..) che non hanno bisogno di un mezzo per propagarsi, pur restando onde a tutti gli effetti.

Comunque sia, un'onda che incontra quest'ostacolo speciale fatto da una barriera opaca con due piccoli buchi, al di la' della barriera si scomporra' in due componenti, una per ogni buco, le quali dopo aver percorso una certa distanza si ricombineranno e interferiranno. Questo e' l'esperimento che rese famoso Young. Interferire significa che le due onde dalle due fessure si sommano nello spazio e il risultato sara' una nuova onda diversa: a parita' di energia, ci saranno punti dello spazio dove l'onda sara' alta il doppio, e ci saranno altri punti in cui la nuova onda sara' sempre zero. Con la luce il risultato e' immediato: si vedranno, se si mette uno schermo bianco al di la della barriera, delle frangie di interferenza, tipo zebra, che sono praticamente delle striscie luminose intrevallate con striscie nere, dove la luce non arriva.

La teoria delle onde spiega perfettamente questo fenomeno, non c'e' nulla di strano. Il problema viene quando ci si chiede qual'e' la natura vera della luce: particelle (fotoni) o onde? In verita' la domanda e la risposta valgono sia per fotoni che per elettroni, e molecole anche grandi come il fullerene, una specie di pallone da calcio microscopico fatto di parecchi atomi di carbonio. Ma qui continuo con i fotoni e la luce per abitudine. Young stesso aveva creato il suo esperimento (la barriera con due piccole aperture) appunto per rispondere a questa domanda riguardo alla luce. Quello che vide fu una figura zebrata di interferenza propria solo dei fenomeni ondulatori, e quindi per quasi cent'anni (1800-1900) il problema fu archiviato: la luce e' un onda. Fino all'inizio del 1900 con l'arrivo ancora della meccanica quantistica che sconvolge tutto.

In verita' quello che sconvolge, almeno me, non e' la teoria ma gli esperimenti. In questo caso gli esperimenti non furono possibili fino a tardi, nel 1974, quando a Milano e Bologna (incredibile ma vero, il nostro paese ha messo una pietra importante nella storia della comprensione del cosmo, e io che li c'ho studiato non ne ho mai sentito parlare fino a ieri, siamo forti in marketing noi) il gruppo di Giorgio Merli studio' l'interferenza con singole particelle. Cioe', oramai si sapevano generare queste particelle singolarmente (elettroni nel 1970, oggi anche fotoni e altri) e quindi la domanda era stata completamente riaperta: particelle o onde? In alcuni casi i risultati sperimentali si capivano con particelle, in altri con onde. L'esperimento in questione faceva un mix dei due nello stesso momento. La cosa ha ancora dell'incredibile.

Praticamente l'importante e' che ormai si possono generare fotoni ad uno a uno. E' come avere la manopola che controlla l'intensita' di una lampadina speciale, ed iniziare ad abbassare la luce. Quando l'intensita' e' alta, e noi si abbassa la manopola, vedremo la luce scendere continuamente di intensita' (i fotoni sono tantissimi). Pero', quando e' davvero buio nella stanza (pochi fotoni emessi), ad un certo punto abbassando la manopola ancora un poco, arriveremo in una regione dove la luce puo' essere abbassata o alzata solo a gradini. Alla fine della manopola vedremo che la luce emessa si spegne di colpo, l'ultimo gradino, l'ultimo fotone. Questa e' la regione in cui singoli fotoni sono emessi, quanti di luce. Ne posso avere zero, uno, due, dieci miliardi, ma non uno e mezzo o due e tre quarti. Cos'e' questo se non una particella, un oggetto molto ben localizzato come una pallozza di luce? Oltetutto se si mette uno schermo fluorescnte davanti alla sorgente e lascio uscire un numero n di fotoni, vedro' un numero n di palline luminose rivelate dallo schermo. Ok, sono palline. Se facciamo l'esperimento di Young con delle palline quello che ci aspettiamo e' che dall'altra parte della barriera si vedranno le palline arrivare in posizioni un po' casuali, con un certa distribuzione di probabilita' (dovuta agli urti contro i bordi delle aperture), ma certo con nessuna evidenza di interfernza. L'importante e' che l'interferenza puo' esserci solo se una cosa passa allo stesso tempo da entrambe le fenditure. Questo e' possibile per un onda, che e' distribuita nello spazio, non per una pallozza. Una pallozza non puo' passare allo stesso momento da entrambi i buchi, quindi niente interferenza per pallozze.

Certo, quindi prendi questa che sei convinto sia una singola pallozza di luce e la schianti contro la barriera con due piccole aperture di Young. Se sei fortunato, passera' dall'altra parte e in effetti si vedra' un pallino bianco sullo schermo al di la' della barriera bucata. Il fotone e' arrivato e lo schermo lo rivela. Ok, particella era all'entrata, e particella rimane in uscita. Fino a qui tutto bene. E invece no. Lasci fare questo processo a tantissimi fotoni, ma sempre uno alla volta, e ogni volta vedi un puntino bianco generato sullo schermo, possibilmente in posizioni un po' diverse. Non e' prevedibile esattamente dove il prossimo puntino apparira' sullo schermo, ma dopo un numero sufficiente di puntini sullo schermo, ci si accorge che i puntini non sono distribuiti davvero casualmente. Quello che appare e' la figura di interferenza zebrata che appariva a Young quando usava una sorgente che di fotoni gliene sparava miliardi al secondo. Facendone passare uno alla volta, si ritrova lo stesso risultato, come nella figura che viene da un esperimento. Ma diavolo, quel risulato portava a dire con certezza che sono onde che interferiscono, mentre ora qui siamo sicuri di aver a che fare con particelle singole, che vengono generate a una a una senza mezze misure (1 o 2 ma non 2 e mezzo) e che si schiantano sullo scrmo fluorescente e generano un puntino singolo di luce! Cosa succede? La singola pallozza passa attraverso i due buchi allo stesso tempo, e fa interferenza con se stessa? Che follia e'?

E chi lo sa? Per questo mi sembra tanto interessante tutta questa storia. Non si puo' fare altro che smettere di pensare che una cosa sia solo quella e basta, che la proprieta' di essere pallozza localizzata sia contraria a quella di essere distribuita nello spazio (anzi, infinita nello spazio) come un'onda. Come se un oggetto solido possa anche essere liquido e non avere piu' un volume ben definito. Pero' in effetti e' strano. Il fotone parte come una pallozza (la manopola dell'intensita' e' abbassata abbastanza), si scompone come un'onda tra le due aperture della barriera, e quindi puo' fare interferenza con se stesso, per poi ricomporsi sullo schermo come una particella, generando un singolo puntino luminoso, ma in una posizione non del tutto a caso. E' l'unica spiegazione possibile ad oggi.

La spiegazione della teoria non e' meno strana, e come potrebbe esserlo. La cosa e' spiegata sempre dalla funzione d'onda che ogni fotone ha associata, e che come dice il nome e' un onda. Come ogni onda, essendo distribuita nello spazio, puo' interferire con se stessa una volta sdoppiata dalle due aperture e generare le frangie osservate. Pero' questa non e' un onda normale, ma solo un onda di probabilita', che ci dice solo dove e' piu' probabile trovare la particella. Dove quest'onda ha i suoi picchi, li' sara' piu' probabile, ma non certo, trovare la particella, una volta che la vogliamo osservare. Una volta al di la' della barriera quest'onda sara' a forma di frangie, a causa dell'interferenza, e lo schermo dove il fotone collide finalmente, e' la misura, l'osservazione. Solo li' la probabilita', che aveva dei massimi e dei minimi dove sono le frangie, diventa realta', scegliendo a caso, ma all'interno di quel pattern dato dall'onda con frangie, un solo punto dove piazzare il fotone. E noi li lo vediamo sullo schermo. Quando pero' ne accumuliamo a centinaia, possiamo renderci conto che esisteva un pattern determinista all'interno del quale il fotone veniva piazzato casualmente. Quindi un po' di caso, un po' di necessita', e tanta confusione.

3.0 Conclusione: nessuna conclusione

E quindi? E chi lo sa, non c'e' conclusione. La teoria funziona benissimo, spiega perfettamente tutti gli esperimenti, gli esperti dicono. Io non sono un esperto, e mi lascio imbambolare come davanti a un prestigiatore, sapendo che il trucco c'e', anche se qui non trucco inteso come inganno del pubblico. Qui mi sa che e' il pubblico che si auto inganna, perche' ha categorie mentali che credeva essere universali e invece funzionano solo ad una certa scala, quella ridicola qualche ordine di grandezza attorno ai metri. Ma quando si va nel piccolo queste categorie non funzionano piu', ce ne sono altre che bisogna inserire nell'insieme delle nostre, per rendere l'insieme piu' grande e un passetto piu' generale. Lo stesso avvenne passando dalla fisica di Newton alla relativita', una teoria nuova ingloba ed estende quella vecchia, e l'essere umano deve imparare a vivere dentro un insieme di concetti piu' vasto, dove le possibilita' aumentano, e quindi anche le responsabilita'. La bomba atomica insegna, per ogni espansione della conoscenza ci vuole una pari estensione dell'etica, altrimenti si salta tutti in aria. Per la meccanica quantistica, che per ora ha aiutato a costruire la bomba, la cosa vale specialmente, anche perche' chissa' a quali bellezze e distruzioni portera' un'estensione della conoscenza che va al di la del realismo locale, delle proprieta' oggettive delle cose, del concetto di causa-effetto. Sono convinto che ci sia un potenziale enorme ancora non scoperto, non capito, che avra' bisogno di filosofi e antropologi oltre che fisici. Perche' i loro esperimenti, gia' succede da quattrocento anni, prima o poi escono dai laboratori e cambiano la faccia e la mente al mondo.
REF.
Entanglement, Wikipedia.
Stern Gerlach, Wikipedia.
Double Slits, Wikipedia
Interpretazioni QM, Wikipedia.
Un video del CNR italiano sull'esperimento di interferenza a singoli elettroni del 1974.
J.S.Townsend "A modern approach to quantum mechanics", University Sience Books

November 10, 2007

Omaggio ottico a Blender

Un post per pubblicizzare un programma eccezionale, che mi sta facendo passare del buon tempo davanti allo schermo. Blender e' un software completamente open source e gratuito, tanto da far parte integrante di Debian da tempo, specializzato nella grafica 3D. Nella mia limitata esperienza, non ho mai visto un software open source tanto curato e ben funzionante come Blender (bhe, oltre al sistema operativo medesimo, certo). Il programma e' abbastanza complesso e complicato da usare, ci vuole pazienza per seguire qualche tutorial, la cui scelta e' parecchio ampia. E soprattutto in rete si trovano milioni di informazioni, il bello dell'opensource.

Ho messo qui attorno degli esempi che ho preso dalla pagina d'archivio della fondazione Blender. Le possibilita' sono enormi. Blender, come altri simili programmi 3D, funziona diversamente da programmi tipo Photoshop. Nella sua interfaccia grafica, si costruisce una vera e propria scena a tre dimensioni, in cui ci si puo' addentrare come un gioco 3D. Si inseriscono oggetti come sfere, cubi e cilindri, oggetti vettoriali fatti di punti, vertici e superfici nello spazio, e li si manipola per cambiargli forma. Quando gli oggetti sono pronti, gli si assegna un materiale (quindi un colore, una trasparenza, luminosita', riflettivita'...). Si piazzano nella scena quindi le sorgenti di luce, con la loro direzione, intensita', tipo di illuminazione. Quindi quando la scena tridimensionale e' completata, l'unico modo per poi vederla su uno schermo o su carta e' fargli una foto: si piazza una "macchina fotografica" nell'angolazione voluta, e si scatta la foto (fare il "rendering").

Programmare il rendering della scena e' qualcosa di davvero complesso. Il Ray Tracing e' la tecnica che permette di simulare nel mondo dei bit i raggi di luce e la loro propagazione tra gli oggetti (tra l'altro questo fa parte di un mercato abbastanza grande, esistono software milionari che fanno ray tracing per sistemi ottici complicati; Blender e' piu' per il lato artistico, ma e' gratis). La luce viaggiando e incontrando oggetti diversi, cambia le sue proprieta', e la fisica fin dal 1800 si e' messa a studiare cosa succede alla luce nell'attraversare lo spazio. Il risultato formalizzato in termini matematici e' quell'ottica chiamata geometrica, che una volta trasportata in linguaggio macchina, diventa Ray Tracing e genera immagini piuttosto realistiche come quelle qui attorno.

Ci sono molte cose che devono essere tenute in conto da un programma che fa un buon Render della scena. Il singolo raggio di luce, che e' un oggetto piu' matematico che fisico/reale, avendo una sola dimensione (la retta generata dal vettore d'onda direbbe qualcuno), se viaggia nel vuoto (o nell'aria a condizioni normali) non cambia ne' di direzione, ne' di spettro (l'insieme dei colori che lo formano). Se viene da una lampada a incandescenza o dal sole, si puo' pensare che sia "bianco", cioe' che al suo interno ci siano tutti i colori (non solo quelli dell'arcobaleno, ma di piu', se chiamiamo colore una frequenza, cosa non corretta quanto interessante). Quando invece incontra la superficie di un oggetto reale possono succedere un po' di cose, prese in conto dal nostro buon software.

Normalmente se l'oggetto e' opaco e appare colorato, il raggio di luce che gli arriva addosso (supponiamolo "bianco") verra' in parte assorbito (quindi perso), in parte riflesso con un angolo a caso (scattering si dice). La parte riflessa (scatterata) avra' anche modificato il suo spettro, perche' l'oggetto si sara' mangiato tutti i colori del raggio tranne quello che poi noi diciamo essere il suo colore (in effetti quando diciamo che un oggetto ha un colore, e' proprio vero il contrario, l'oggetto si tiene per se' tutti i colori tranne quello che poi noi gli attribuiamo come "suo"!). Se invece l'oggetto e' speciale, come uno specchio, sara' capace di riflettere il raggio conservando il suo angolo di incidenza e il suo spettro. Quindi il raggio fara' come una palla da biliardo che rimbalza sul bordo, angolo di incidenza uguale a quello di riflessione. Questo permette di vedere perfettamente un oggetto riflesso in uno specchio perfetto. Ma gli oggetti in genere possono essere anche in una via di mezzo tra uno specchio perfetto e un oggetto che diffonde luce completamente a caso, possono un po' riflettere e un po' scatterare, e un po' filtrare qualche frequenza, come possono fare delle vernici luminose.

L'oggetto in questione, poi, puo' chiaramente anche non assorbire troppa luce, e lasciarne passare una buona parte attraverso (il vetro per esempio). Qui allora la cosa si fa piu' complessa, perche' il raggio che attraversa il vetro cambia direzione all'interno del mezzo (rifrazione), e poi la cambia ancora quando ne esce. Il risultato sono gli occhiali. Le lenti in genere riescono a giocare su questo meccanismo e cambiare la direzione dei raggi in maniera controllata. Siccome la rifrazione, la riflessione, l'assorbimento e il filtraggio di certe frequenze e' qualcosa che puo' essere scritto in equazioni (abbastanza semplici per il singolo raggio) e le equazioni sono poi facili da tramutare in programma per computer, che ne puo' gestire molte insieme, Blender e il Ray Tracing possono simulare come la luce cambia attraverso gli oggetti della scena.

Il segreto per snellire una quantita' di calcoli che in principio e' infinita (tra due raggi qualunque ne esistono infiniti, come per le rette) e' quello di partire non dalle sorgenti di luce e seguire tutti i raggi in tutte le direzioni, ma di limitarsi a quelli a cui si e' interessati, che sono quelli che alla fine del loro viaggio arrivano all'occhio, o macchina fotografica. Quindi in effetti l'analisi viene fatta al contrario, partendo dalla fine, dalla macchina fotografica e risalendo fino alla sorgente. In questo modo il Rendering di una scena non troppo complicata e' fatto nel giro di un minuto. L'ottica geometrica applicata, duecento anni di storia, condensati nel processore in pochi secondi. Cosa ne penserebbe Newton?

[PS: l'ultima immagine e' mia! Se non cambiano idea nel frattempo, dovrebbe poi apparire in copertina di un giornale di ricerca.. viva blender.]

November 8, 2007

America, il terrore sotto la pelle

DAL MANIFESTO 8 Novembre 2007

Il regno della paura La sindrome del dopo 11 settembre
America, il terrore sotto la pelle
Stato di assedio. A più di sei anni dal crollo delle Twin Towers, gli Usa vivono ancora in un clima di emergenza Xenofobia Controlli, sospetti, allarme sociale. Democratici e repubblicani davanti al razzismo montante
Marco d'Eramo
Inviato a New York

Per la prima volta, quest'anno mi sono spaventato negli Stati uniti. Perché dopo sei anni di martellante campagna da parte delle autorità e dei media, infine la cultura del terrore si è radicata nella società americana e le ha inoculato i suoi veleni. Da sei anni a questa parte non un solo petardo terrorista è scoppiato in questo paese le cui frontiere sono colabrodo e che conta almeno 12 milioni di immigrati clandestini. L'eccidio più grave è stato commesso in Virginia da uno studente universitario, non da un terrorista. In sei lunghi anni, non un solo attentato terroristico, fosse anche di uno squilibrato (c'è da rimanerne attoniti e meditarci su), eppure tutto congiura a far sì che la società statunitense viva nel costante incubo di un attacco prossimo futuro. Il terrore è penetrato sotto la pelle, con il suo corredo di sospetti, di odio e di xenofobia. Se terrorismo vuol dire diffondere il terrore, allora si può dire che Osama Bin Laden ha conseguito una vittoria strategica di dimensioni inusitate, facendo sprofondare nel terrore la più potente (e minacciosa) nazione del pianeta.

A più di sei anni dall'11 settembre 2001, è ancora e sempre il terrore a dominare quest'avvio di campagna presidenziale che si concluderà nel novembre 2008. È comprensibile che l'ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani, sbandieri a destra e a manca la sua gestione dopo il crollo delle Twin Towers: il senatore democratico Joe Biden ha detto che ogni frase della campagna di Giuliani «è composta di un sostantivo, di un verbo e di 11/9». È comprensibile, anche se orripilante, che tre favoriti alla nomination repubblicana (Giuliani, l'ex governatore del Massachusetts Mitt Romney e l'ex senatore e attore - non a caso nella serie Law and Order - Fred Thompson), si dichiarino favorevoli, a volte entusiasti degli «interrogatori estremi». Mitt Romney vorrebbe addirittura raddoppiare Guantanamo. Anche se c'è la notevole eccezione del senatore dell'Arizona John McCain, un falco rapace in generale, ma contrario alla tortura, forse perché lui è l'unico del branco ad averla subìta di persona quando era prigioniero di guerra in Vietnam. Tutti questi candidati si gingillano in interminabili discussioni se il waterboarding (tenere una persona con la testa sott'acqua finché sta per affogare, e poi ripetere l'operazione ad libitum finché parla) sia definibile come tortura oppure no.

È già meno comprensibile la senatrice di New York Hillary Clinton quando, dopo essersi dichiarata contraria alla tortura, aggiunge: «Nel caso dovessimo interrogare un detenuto al corrente di un attacco imminente a milioni di americani, allora la decisione di derogare dai criteri internazionali deve essere presa dal presidente. E il presidente dovrebbe risponderne» (ancora una volta è McCain a stonare nel coro: «Il waterboarding à tortura, punto»). I comizi e i talk shows dei repubblicani usano - in modo nemmeno tanto sottile - il terrore per alimentare un odio anti-islamico: «Noi teniamo in considerazione la vita, ed è questo che ci separa dai jihadisti islamici che vogliono ucciderci tutti» (Mike Huckabee, il prediletto dei conservatori cristiani); «È guerra totale, è il fascismo islamico che l'ha dichiarata contro di noi» (Fred Thompson); «il jihadismo è l'incubo del nostro secolo» (Mitt Romney), mentre Rudy Giuliani sfotte i democratici: «In quattro dibattiti tv, non un solo candidato democratico ha usato il termine 'terrorismo islamico': è davvero portare all'estremo il politically correct» (sottinteso: «solo noi repubblicani siamo capaci di chiamare le cose col loro nome»). In Italia non ci si rende conto quanto il martellamento mediatico abbia confuso le menti statunitensi. Come già avvenuto con l'Iraq, adesso l'opinione pubblica non dubita che l'Iran sia una minaccia per gli Usa (il 52 % degli americani è ora favorevole a un attacco preventivo contro l'Iran), tanto da indurre George Bush a brandire la minaccia di una «terza guerra mondiale» con un paese che ha un quinto della popolazione Usa, ha un prodotto interno lordo sessanta volte più piccolo e un bilancio militare inferiore a un centesimo di quello degli Usa.

«Servizio completo» per il turista
Ma il veleno più tossico che il terrore inocula nella società americana è il razzismo, la xenofobia. Dall'11 settembre a quest'anno devo aver compiuto una trentina di voli interni negli Usa, e mai mi era capitato di esser l'oggetto di attenzioni particolari da parte dei controlli di sicurezza aeroportuali: in fondo si trattava di un signore europeo di mezz'età, con un visto professionale quinquennale. Quest'anno ho preso tre voli interni, e tutte e tre le volte ho ricevuto il full monty, «servizio completo», pelo e contropelo, con il telefonino, le scarpe, la macchina fotografica passati all'antibomba, e con un sovrappiù di sgarberia e maleducazione. Nei mesi successivi all'11 settembre erano molto più gentili. Una delle caratteristiche che ti facevano apprezzare gli Stati uniti era che, rispetto agli immigrati, questo paese era infinitamente più ospitale di quanto siamo noi (le vicende di questi giorni in Italia ce lo ricordano amaramente). Rispetto agli Usa, l'Europa si è sempre comportata come una fortezza assediata, ostile, respingente, che lascia affogare in mare chi vuole raggiungerla, detiene i malcapitati intercettati dietro i fili spinati di luoghi chiamati sardonicamente «centri di accoglienza», o di «protezione temporanea» (esempi di orwelliana neolingua). Negli Stati uniti c'era un compiacimento addirittura manierato e sdolcinato rispetto alla diversità (tranne poi a rimpiangere che «il nostro quartiere è così diverse», col tono di chi confessa uno scheletro nell'armadio, suggerendo che ci abitano neri e ispanici).

Rigurgiti xenofobi sono ricorrenti in America, a partire dal 1854-56, quando il movimento Know nothing si opponeva (senza successo) all'immigrazione e naturalizzazione dei nuovi venuti, per non pensare alla xenofobia nei primi anni '20 del '900 che portò praticamente alla chiusura delle frontiere per parecchi decenni. Ma erano i «leghisti» americani: ora - proprio come in Italia - sembra che l'intera società si sia leghizzata, col risultato che la differenza tra Stati uniti ed Europa è meno visibile. E nel letale cocktail odierno la base è stata la cultura del terrore. Basti pensare alla vicenda che nell'ultimo mese ha fatto discutere New York e l'intero paese. Negli Stati uniti non c'è un documento d'identità obbligatorio e solo il 10% circa degli statunitensi ha il passaporto: l'unico documento che comporta una foto è la patente, che ormai viene usata quasi come carta d'identità (ma di solito accettano anche la carta di credito, senza foto ma con garanzia bancaria). Gli immigrati clandestini non hanno documenti, sono appunto chiamati «indocumentados»; nel tempo andato qui gli italiani venivano chiamati Wop, che faceva gioco di parole con la sigla Wasp (White anglo-saxon protestant) che indicava l'élite dei primi coloni; ma Wop significava «With Out Papers», sans papiers, anche se secondo alcuni è la deformazione fonetica inglese di «guappo». Il paradosso tutto americano, bizantino e moralista, è che pur non avendo documenti, i clandestini pagano le tasse e sono iscritti alla mutua dai loro datori di lavoro (l'iscrizione alla mutua non richiede di precisare lo status migratorio). Il risultato è che questi contribuenti non hanno documenti. Per di più, se guidano, poiché privi di patente, non hanno l'assicurazione e quindi, se hanno un incidente, tendono a scappare e a diventare pirati della strada. Per tutte queste ragioni, i vari stati si chiedono in modo ricorrente come risolvere il problema. L'anno scorso la California ha bocciato per referendum la proposta di concedere la patente ai clandestini.

Sindrome Osama
Quest'anno ci ha riprovato il governatore democratico dello stato di New York, Eliot Spitzer, un ex pubblico ministero, un Antonio Di Pietro locale: d'altronde anche Rudy Giuliani è diventato sindaco dopo essere stato Pubblico ministero e il passaggio dalla Procura alla politica è antico e frequentissimo negli Usa. Non l'avesse mai fatto. Uno dei due anchormen più seguiti della Cnn, Lou Dobbs, ha lanciato una crociata sanguinosa contro Spitzer, sparandogli contro ogni sera. Il leader della minoranza repubblicana nel parlamento dello stato di New York, James N. Tedisco, ha rispecchiato la sfumata posizione dei tabloid e di Dobbs quando ha esclamato in un comizio: «Osama bin Laden sta da qualche parte in una caverna con il suo covo (sic!) di ladri e terroristi e probabilmente sta stappando lo champagne dicendo 'Hey, quel governatore ci sta proprio dando una mano!'», mentre il deputato dell'Alaska alla Camera degli Stati Uniti, Bob Lynn, esclama nel suo sito blog: «Per favore, niente patente a Osama bin Laden!». Risultato: Spitzer ha dovuto fare marcia indietro e presentare un nuovo, abborracciatissimo disegno legge a tre velocità, che concede la patente solo a certe condizioni. Quando la settimana scorsa i candidati democratici si sono confrontati in un dibattito tv, e a Hillary Clinton è stata posta la domanda sulle patenti ai clandestini, la sua risposta è stata per lo meno imbarazzante: prima è sembrata difendere il piano di Spitzer («mi pare ragionevole»), poi ne ha preso le distanze, e infine, quando il moderatore ha chiesto una risposta precisa, lo ha accusato di giocare sporco.

C'è un motivo per l'imbarazzo della Clinton: in parecchi stati decisivi, sia per le primarie a gennaio e febbraio (in particolare Iowa e South Carolina), sia per le stesse presidenziali dell'anno prossimo, la xenofobia cresce e l'ondata «espelliamoli tutti» sta assumendo le dimensioni di uno tsunami. Perciò i candidati non possono alienarsi questa fetta della popolazione. Ma d'altro canto, in altri stati altrettanto decisivi, gli elettori di origine ispanica sono decisivi anch'essi e nessuno si può permettere il lusso di alienarseli. Si tratta così di accontentare capra e cavoli. Ecco perché nei siti della Clinton e dell'ex senatore John Edwards, la parola immigrazione non compare mai nel loro programma. Sull'altro fronte i repubblicani hanno lo stesso imbarazzo ma con un dilemma inverso. Gran parte della loro base (in termini numerici) è xenofoba e anti-immigrazione, ma gli immigrati - in particolare clandestini - sono vitali per l'agricoltura, i servizi, le industrie agro-alimentari, le grandi catene commerciali, e perciò il mondo degli affari non può farne a meno. Ecco perché era stato votato anche dai democratici il progetto di legge presentato l'anno scorso da George Bush che conteneva un inasprimento dei controlli alla frontiera, ma cercava di far uscire dal limbo i più di 12 milioni di clandestini che lavorano qui da anni. Con in più un problema specifico agli Usa, nazione dove vige il «diritto di suolo» (invece che «diritto di sangue» come in altri paesi: chiunque sia nato negli Usa è cittadino americano, anche se con qualche restrizione). Ora, negli Stati uniti ci sono circa 3,5 milioni di bambini nati qui e perciò cittadini a tutti gli effetti, i cui genitori però sono clandestini e quindi passibili di espulsione. Cosa farne?

Il problema diventa sempre più serio: sono sempre più numerose le deportazioni (130.000 l'anno scorso al confine messicano), si moltiplicano le irruzioni notturne negli alloggi dei clandestini. Già quest'anno molta frutta è marcita perché non è stata raccolta in California. Perciò il (piccolo e) gran capitale è contrario all'ondata xenofoba. Ma il mondo degli affari è appunto uno dei due pilastri del partito repubblicano, quello che gli ha fornito legittimità, presentabilità e fondi elettorali. Prendere una posizione netta sui clandestini è perciò per i repubblicani altrettanto imbarazzante che per i democratici, impigliati ambedue in simmetriche, e contrapposte, contraddizioni di classe. E ambedue restano silenziosi e pavidi di fronte all'imbarbarirsi del paese che in teoria dovrebbero pilotare.