November 8, 2007

America, il terrore sotto la pelle

DAL MANIFESTO 8 Novembre 2007

Il regno della paura La sindrome del dopo 11 settembre
America, il terrore sotto la pelle
Stato di assedio. A più di sei anni dal crollo delle Twin Towers, gli Usa vivono ancora in un clima di emergenza Xenofobia Controlli, sospetti, allarme sociale. Democratici e repubblicani davanti al razzismo montante
Marco d'Eramo
Inviato a New York

Per la prima volta, quest'anno mi sono spaventato negli Stati uniti. Perché dopo sei anni di martellante campagna da parte delle autorità e dei media, infine la cultura del terrore si è radicata nella società americana e le ha inoculato i suoi veleni. Da sei anni a questa parte non un solo petardo terrorista è scoppiato in questo paese le cui frontiere sono colabrodo e che conta almeno 12 milioni di immigrati clandestini. L'eccidio più grave è stato commesso in Virginia da uno studente universitario, non da un terrorista. In sei lunghi anni, non un solo attentato terroristico, fosse anche di uno squilibrato (c'è da rimanerne attoniti e meditarci su), eppure tutto congiura a far sì che la società statunitense viva nel costante incubo di un attacco prossimo futuro. Il terrore è penetrato sotto la pelle, con il suo corredo di sospetti, di odio e di xenofobia. Se terrorismo vuol dire diffondere il terrore, allora si può dire che Osama Bin Laden ha conseguito una vittoria strategica di dimensioni inusitate, facendo sprofondare nel terrore la più potente (e minacciosa) nazione del pianeta.

A più di sei anni dall'11 settembre 2001, è ancora e sempre il terrore a dominare quest'avvio di campagna presidenziale che si concluderà nel novembre 2008. È comprensibile che l'ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani, sbandieri a destra e a manca la sua gestione dopo il crollo delle Twin Towers: il senatore democratico Joe Biden ha detto che ogni frase della campagna di Giuliani «è composta di un sostantivo, di un verbo e di 11/9». È comprensibile, anche se orripilante, che tre favoriti alla nomination repubblicana (Giuliani, l'ex governatore del Massachusetts Mitt Romney e l'ex senatore e attore - non a caso nella serie Law and Order - Fred Thompson), si dichiarino favorevoli, a volte entusiasti degli «interrogatori estremi». Mitt Romney vorrebbe addirittura raddoppiare Guantanamo. Anche se c'è la notevole eccezione del senatore dell'Arizona John McCain, un falco rapace in generale, ma contrario alla tortura, forse perché lui è l'unico del branco ad averla subìta di persona quando era prigioniero di guerra in Vietnam. Tutti questi candidati si gingillano in interminabili discussioni se il waterboarding (tenere una persona con la testa sott'acqua finché sta per affogare, e poi ripetere l'operazione ad libitum finché parla) sia definibile come tortura oppure no.

È già meno comprensibile la senatrice di New York Hillary Clinton quando, dopo essersi dichiarata contraria alla tortura, aggiunge: «Nel caso dovessimo interrogare un detenuto al corrente di un attacco imminente a milioni di americani, allora la decisione di derogare dai criteri internazionali deve essere presa dal presidente. E il presidente dovrebbe risponderne» (ancora una volta è McCain a stonare nel coro: «Il waterboarding à tortura, punto»). I comizi e i talk shows dei repubblicani usano - in modo nemmeno tanto sottile - il terrore per alimentare un odio anti-islamico: «Noi teniamo in considerazione la vita, ed è questo che ci separa dai jihadisti islamici che vogliono ucciderci tutti» (Mike Huckabee, il prediletto dei conservatori cristiani); «È guerra totale, è il fascismo islamico che l'ha dichiarata contro di noi» (Fred Thompson); «il jihadismo è l'incubo del nostro secolo» (Mitt Romney), mentre Rudy Giuliani sfotte i democratici: «In quattro dibattiti tv, non un solo candidato democratico ha usato il termine 'terrorismo islamico': è davvero portare all'estremo il politically correct» (sottinteso: «solo noi repubblicani siamo capaci di chiamare le cose col loro nome»). In Italia non ci si rende conto quanto il martellamento mediatico abbia confuso le menti statunitensi. Come già avvenuto con l'Iraq, adesso l'opinione pubblica non dubita che l'Iran sia una minaccia per gli Usa (il 52 % degli americani è ora favorevole a un attacco preventivo contro l'Iran), tanto da indurre George Bush a brandire la minaccia di una «terza guerra mondiale» con un paese che ha un quinto della popolazione Usa, ha un prodotto interno lordo sessanta volte più piccolo e un bilancio militare inferiore a un centesimo di quello degli Usa.

«Servizio completo» per il turista
Ma il veleno più tossico che il terrore inocula nella società americana è il razzismo, la xenofobia. Dall'11 settembre a quest'anno devo aver compiuto una trentina di voli interni negli Usa, e mai mi era capitato di esser l'oggetto di attenzioni particolari da parte dei controlli di sicurezza aeroportuali: in fondo si trattava di un signore europeo di mezz'età, con un visto professionale quinquennale. Quest'anno ho preso tre voli interni, e tutte e tre le volte ho ricevuto il full monty, «servizio completo», pelo e contropelo, con il telefonino, le scarpe, la macchina fotografica passati all'antibomba, e con un sovrappiù di sgarberia e maleducazione. Nei mesi successivi all'11 settembre erano molto più gentili. Una delle caratteristiche che ti facevano apprezzare gli Stati uniti era che, rispetto agli immigrati, questo paese era infinitamente più ospitale di quanto siamo noi (le vicende di questi giorni in Italia ce lo ricordano amaramente). Rispetto agli Usa, l'Europa si è sempre comportata come una fortezza assediata, ostile, respingente, che lascia affogare in mare chi vuole raggiungerla, detiene i malcapitati intercettati dietro i fili spinati di luoghi chiamati sardonicamente «centri di accoglienza», o di «protezione temporanea» (esempi di orwelliana neolingua). Negli Stati uniti c'era un compiacimento addirittura manierato e sdolcinato rispetto alla diversità (tranne poi a rimpiangere che «il nostro quartiere è così diverse», col tono di chi confessa uno scheletro nell'armadio, suggerendo che ci abitano neri e ispanici).

Rigurgiti xenofobi sono ricorrenti in America, a partire dal 1854-56, quando il movimento Know nothing si opponeva (senza successo) all'immigrazione e naturalizzazione dei nuovi venuti, per non pensare alla xenofobia nei primi anni '20 del '900 che portò praticamente alla chiusura delle frontiere per parecchi decenni. Ma erano i «leghisti» americani: ora - proprio come in Italia - sembra che l'intera società si sia leghizzata, col risultato che la differenza tra Stati uniti ed Europa è meno visibile. E nel letale cocktail odierno la base è stata la cultura del terrore. Basti pensare alla vicenda che nell'ultimo mese ha fatto discutere New York e l'intero paese. Negli Stati uniti non c'è un documento d'identità obbligatorio e solo il 10% circa degli statunitensi ha il passaporto: l'unico documento che comporta una foto è la patente, che ormai viene usata quasi come carta d'identità (ma di solito accettano anche la carta di credito, senza foto ma con garanzia bancaria). Gli immigrati clandestini non hanno documenti, sono appunto chiamati «indocumentados»; nel tempo andato qui gli italiani venivano chiamati Wop, che faceva gioco di parole con la sigla Wasp (White anglo-saxon protestant) che indicava l'élite dei primi coloni; ma Wop significava «With Out Papers», sans papiers, anche se secondo alcuni è la deformazione fonetica inglese di «guappo». Il paradosso tutto americano, bizantino e moralista, è che pur non avendo documenti, i clandestini pagano le tasse e sono iscritti alla mutua dai loro datori di lavoro (l'iscrizione alla mutua non richiede di precisare lo status migratorio). Il risultato è che questi contribuenti non hanno documenti. Per di più, se guidano, poiché privi di patente, non hanno l'assicurazione e quindi, se hanno un incidente, tendono a scappare e a diventare pirati della strada. Per tutte queste ragioni, i vari stati si chiedono in modo ricorrente come risolvere il problema. L'anno scorso la California ha bocciato per referendum la proposta di concedere la patente ai clandestini.

Sindrome Osama
Quest'anno ci ha riprovato il governatore democratico dello stato di New York, Eliot Spitzer, un ex pubblico ministero, un Antonio Di Pietro locale: d'altronde anche Rudy Giuliani è diventato sindaco dopo essere stato Pubblico ministero e il passaggio dalla Procura alla politica è antico e frequentissimo negli Usa. Non l'avesse mai fatto. Uno dei due anchormen più seguiti della Cnn, Lou Dobbs, ha lanciato una crociata sanguinosa contro Spitzer, sparandogli contro ogni sera. Il leader della minoranza repubblicana nel parlamento dello stato di New York, James N. Tedisco, ha rispecchiato la sfumata posizione dei tabloid e di Dobbs quando ha esclamato in un comizio: «Osama bin Laden sta da qualche parte in una caverna con il suo covo (sic!) di ladri e terroristi e probabilmente sta stappando lo champagne dicendo 'Hey, quel governatore ci sta proprio dando una mano!'», mentre il deputato dell'Alaska alla Camera degli Stati Uniti, Bob Lynn, esclama nel suo sito blog: «Per favore, niente patente a Osama bin Laden!». Risultato: Spitzer ha dovuto fare marcia indietro e presentare un nuovo, abborracciatissimo disegno legge a tre velocità, che concede la patente solo a certe condizioni. Quando la settimana scorsa i candidati democratici si sono confrontati in un dibattito tv, e a Hillary Clinton è stata posta la domanda sulle patenti ai clandestini, la sua risposta è stata per lo meno imbarazzante: prima è sembrata difendere il piano di Spitzer («mi pare ragionevole»), poi ne ha preso le distanze, e infine, quando il moderatore ha chiesto una risposta precisa, lo ha accusato di giocare sporco.

C'è un motivo per l'imbarazzo della Clinton: in parecchi stati decisivi, sia per le primarie a gennaio e febbraio (in particolare Iowa e South Carolina), sia per le stesse presidenziali dell'anno prossimo, la xenofobia cresce e l'ondata «espelliamoli tutti» sta assumendo le dimensioni di uno tsunami. Perciò i candidati non possono alienarsi questa fetta della popolazione. Ma d'altro canto, in altri stati altrettanto decisivi, gli elettori di origine ispanica sono decisivi anch'essi e nessuno si può permettere il lusso di alienarseli. Si tratta così di accontentare capra e cavoli. Ecco perché nei siti della Clinton e dell'ex senatore John Edwards, la parola immigrazione non compare mai nel loro programma. Sull'altro fronte i repubblicani hanno lo stesso imbarazzo ma con un dilemma inverso. Gran parte della loro base (in termini numerici) è xenofoba e anti-immigrazione, ma gli immigrati - in particolare clandestini - sono vitali per l'agricoltura, i servizi, le industrie agro-alimentari, le grandi catene commerciali, e perciò il mondo degli affari non può farne a meno. Ecco perché era stato votato anche dai democratici il progetto di legge presentato l'anno scorso da George Bush che conteneva un inasprimento dei controlli alla frontiera, ma cercava di far uscire dal limbo i più di 12 milioni di clandestini che lavorano qui da anni. Con in più un problema specifico agli Usa, nazione dove vige il «diritto di suolo» (invece che «diritto di sangue» come in altri paesi: chiunque sia nato negli Usa è cittadino americano, anche se con qualche restrizione). Ora, negli Stati uniti ci sono circa 3,5 milioni di bambini nati qui e perciò cittadini a tutti gli effetti, i cui genitori però sono clandestini e quindi passibili di espulsione. Cosa farne?

Il problema diventa sempre più serio: sono sempre più numerose le deportazioni (130.000 l'anno scorso al confine messicano), si moltiplicano le irruzioni notturne negli alloggi dei clandestini. Già quest'anno molta frutta è marcita perché non è stata raccolta in California. Perciò il (piccolo e) gran capitale è contrario all'ondata xenofoba. Ma il mondo degli affari è appunto uno dei due pilastri del partito repubblicano, quello che gli ha fornito legittimità, presentabilità e fondi elettorali. Prendere una posizione netta sui clandestini è perciò per i repubblicani altrettanto imbarazzante che per i democratici, impigliati ambedue in simmetriche, e contrapposte, contraddizioni di classe. E ambedue restano silenziosi e pavidi di fronte all'imbarbarirsi del paese che in teoria dovrebbero pilotare.

1 comment:

Anonymous said...

Se vogliamo sconfiggere il terrorismo dobbaimo smettere di essere terroristi. E fermare Sati Uniti, Israele, Gran Bretagna, Russia.
Paolo Barnard
PERCHE' CI ODIANO
Edizioni BUR

GianMuga